La lunga assenza su questo blog è dovuta a un’esperienza che, nella vita di una donna, è un’esperienza forte. È il primo aggettivo a cui penso per descrivere la maternità, lo penso prima della parola “meraviglioso”, o “magico” o “faticoso”. Tutte le mie energie sono state risucchiate da questo esserino di 50 cm che ora spalanca gli occhi nel suo seggiolino come per dirmi “embé?”.
So che adesso tutto sarà diverso. So che per raccontare l’universo femminile, dopo la nascita di una figlia, avro’ degli occhi nuovi. Durante la prima fase di questo lavoro, l’anno scorso, chiesi a mia madre se si sentisse una donna libera. Era una domanda che abbiamo posto a tutte le protagoniste del documentario, ed ero curiosa di sapere cosa ne pensasse lei. “Da ragazza sí, mi sentivo libera, ma da quando ho avuto voi due, non lo sono più”. Cattiva! – pensai. Mamma cattivissima! Non si dicono queste cose ad una figlia!
E invece adesso so che sí, si dicono queste cose ad una figlia, e si devono anche dire alle altre donne, per non sentirsi sole. Parlare di maternità non vuol dire raccontare solo la gioia di un figlio, dei suoi sorrisi, dei suoi progressi. La maternità – insieme alla non-maternità- non è una questione di bambini, ma una questione di donne. Quanti nodi, quanto dolore, quanta fatica, quante ingiustizie ci sono dietro ad una donna che decide di avere –o non avere- un figlio. Quanti lati oscuri legati all’amore di una madre, che oggi mi sembra essere una cosa ancora più immensa se ti porta ad affrontarli con forza e a ripetere l’esperienza. Quanti giudizi, di uomini e di altre donne! Ho l’impressione che dietro la patina dorata della parola “mamma” ci sia un universo di questioni di cui si parla ancora troppo poco. Una riflessione su quale sia l’eredità del femminismo sulla questione della maternità è d’obbligo. Ed è il mio punto di partenza, nato dall’esperienza della mia nascita come madre, per questa seconda parte del documentario. Che tratterà, naturalmente, anche altri temi riguardanti le giovani generazioni di donne, le figlie, dunque, e le nipoti delle ragazze in minigonna degli anni ’70.
Diverse sono le protagoniste di “Le storie che so di lei –oggi”, ma le stesse restano le mie compagne di viaggio. Ilaria, con la sua bella testa, i suoi ragionamenti arguti, le domande intelligenti, la mente apertissima- che mi sembra cosí rara, oggi- la sua curiosità; Manu, sempre schietta e sincera, come la birra, sí, coi suoi giudizi duri, a volte, ma perspicaci, battaglieri. E poi Sandra, di cui si potrebbe scrivere un romanzo, ma di Sandra scrivero’ solo poche parole perché la sua esperienza, la sua mentalità cosi “avanti”, la sua disponibilità-totale-, mi paiono dei corollari rispetto al suo strepitoso senso dell’umorismo. Perché Sandra ride quando le alunne delle superiori, per le quale gli anni ’70 sono stati davvero la preistoria, la pensano come un dinosauro. O quando Manu la chiama “la nonna”, e lei stessa propone di farsi fotografare con il tombolo in mano in una corte di un vecchio palazzo. Poi la vedi sfrecciare con la sua decappottabile –che si è pagata da sola- e pensi davvero che è un mostro. E capisci che in quel volto che si specchia, tirandosi su i capelli, in quello che quelle mani e quella testa hanno fatto in questi anni, ci sei anche tu.